mercoledì 18 luglio 2012

Il ricatto permanente delle banche


Col ricatto permanente ci vogliono piegare al dominio totale delle banche
di Francesco Lamendola - 17/07/2012
Fonte: Arianna Editrice
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Finalmente ha lasciato cadere la maschera, l’arrogante professore bocconiano, e l’ha detto chiaro e tondo: il grande nemico dell’Italia, la causa di gran parte dei suoi mali passati e presenti, è la concertazione; se si vuole evitare la perdita della sovranità e l’umiliazione nazionale, bisogna chiuderla in cantina e buttare via la chiave.

Certo che lo spread rimane alto, altissimo; e ciò dopo sette mesi di tagli e di manovre finanziarie che avrebbero accoppato un toro e dopo un vertice internazionale che - complice la vittoria contemporanea della nostra nazionale di calcio e la doppietta goleadora dell’altro Supermario - ci era stato trionfalisticamente descritto come risolutivo, nella duplice lotta contro l’arroganza teutonica e contro gli attacchi della speculazione.
Se i “professori” fossero semplicemente degli esperti chiamati a disincagliare la nave portata sugli scogli dalle manovre balorde degli Schettino della politica, se fossero soltanto dei tecnici che devono rimettere la nave in grado di galleggiare e, magari, di riprendere la navigazione, sia pure a velocità ridotta, allora potremmo accettare l’esproprio di democrazia rappresentato dal loro governo, non sanzionato dalla volontà popolare, ma piovuto dall’alto come effetto di una oscura operazione interna e internazionale, sotto la disinvolta regia del nostro eccellente “re Giorgio”, in perfetto stile 25 luglio 1943.
Del resto, la cialtroneria del governo Berlusconi era stata tale, così come la palese insipienza delle opposizioni di sinistra, da far apparire quella dubbia soluzione costituzionale come la meno peggiore possibile, nelle circostanze date del novembre scorso: una sorta di abdicazione volontaria e temporanea della politica, cronicamente incapace di riformarsi, in favore di un esecutivo d’emergenza, che, senza guardare in faccia a nessuno, avrebbe preso in mano la situazione con polso fermo e avrebbe proceduto a tappe forzate sulla strada del risanamento finanziario e di una energica razionalizzazione dell’ipertrofico sistema amministrativo.
Così, ingenuamente, l’hanno presa la maggioranza degli Italiani e così, pazientemente, hanno subito le sforbiciate, i tagli, i balzelli (con la sola eccezione dei banchieri e degli stessi politici, che non si sono tassati di un solo euro) che hanno mandato l’Italia in recessione galoppante; hanno accettato tutto, anche se qualche dubbio cominciavano a nutrirlo, visto che lo scoglio della spesa pubblica non veniva aggredito seriamente, ma ci si accaniva quasi soltanto ad inventare nuove tasse, con il bel risultato di prosciugare i portafogli e di far diminuire, per la prima volta in vent’anni, perfino la spesa alimentare delle famiglie.
Però, c’era qualcosa che non tornava; e più passano i giorni, le settimane e i mesi, e più il dubbio si rafforza nella testa delle persone che sono ancora capaci di usarla: lo spread non ne vuol sapere di andar giù. Ci era stato detto che ogni sacrificio sarebbe stato compensato dall’abbassamento del differenziale fra i titoli italiani e quelli tedeschi; e invece questo non avviene, avviene il contrario: lo spread continua a salire. Scende un poco, poi torna su, inesorabilmente; si ferma, arretra, e poi riprende la sua galoppata verso l’alto, verso quota cinquecento.
Ora, anche i bambini, che nulla sanno di economia, hanno capito che lo spread non è la malattia, ma semplicemente la febbre che segnala la presenza della malattia; sta di fatto che il malato, sottoposto a una cura da cavallo, dopo sette mesi buoni avrebbe il diritto, leggendo la temperatura sul termometro, di aspettarsi un miglioramento; e qualunque medico responsabile, entro un tale margine di tempo, dovrebbe tirare le conclusioni dal fatto che la febbre non è scesa.
Invece no.
Si dice al malato che la cura è giusta, giustissima; solo, dovrà armarsi di ulteriore pazienza e ingurgitare ulteriori quantità di medicine: ma sempre le stesse di prima, solo in dosi ancora più massicce, ancora più industriali.
Gli si dice che l’epidemia non ha colpito lui solo, ma che è mondiale; che molti altri pazienti giacciono a letto, malati come lui (bella consolazione); che non solo deve fidarsi ciecamente del medico, ma deve dargli ancora più potere, deve firmargli una carta in bianco, nella quale lo autorizza a qualunque nuovo intervento egli ritenga necessario, fosse pure la cauterizzazione delle piaghe con il fuoco, l’intubazione, l’amputazione degli arti, la messa in coma farmacologico e, magari (ma questo è scritto piccolo piccolo, il paziente non lo legge nemmeno prima di firmare), la donazione degli organi, se qualcosa dovesse andare male.
Ora, non insisteremo sul fatto che questi tanto decantati “professori” non si sono mostrati poi così competenti, come ce li eravamo immaginati; che il Ministro del lavoro ha sbagliato la cifra sugli “esodati” di quattro o cinque volte; che, per procedere ad alcuni passaggi di riduzione della spesa, i tecnici hanno dovuto chiamare al capezzale del malato niente meno che dei super-tecnici, tutta gente dal pedigree professionale così eccelso, da farci costare i suoi servigi cifre astronomiche, e questo mentre ci stiamo letteralmente svenando per tamponare la falla del debito pubblico: tutte queste sono cose, fino a un certo punto, comprensibili, se non proprio accettabili, dato che si tratta pur sempre di professori e di tecnici italiani, cioè che funzionano all’italiana e, forse, in un Paese come la Germania, li avrebbero già licenziati con un calcio nel sedere per manifesta incapacità, altro che salutarli come i salvatori della Patria.
E non insisteremo nemmeno sulla loro arroganza, sulla loro supponenza, sulla loro permalosità, per cui reagiscono in maniera piccata e, talora, scomposta, alle pur rare critiche e se ne vanno dritti per la loro strada, senza ascoltare nessuno e senza perder tempo in troppe spiegazioni al volgo ignorante e disperso che nome non ha e che, tanto, non capirebbe neppure, infatti gli basta la partita di calcio (truccata) per dimenticare in fretta le malinconie, compresa quella di dover mantenere una casta inetta e lazzarona, mezza inquisita dalla magistratura e in tutt’altre faccende affaccendata che i problemi del Paese; una casta rappresentata da personaggi che vanno regolarmente in ferie ai Caraibi a spese di qualche losco faccendiere di mezza tacca, o che arrivano a sedere in Parlamento perché hanno mostrato il proprio valore facendo le veline seminude (e largamente rifatte dal chirurgo estetico) in qualche programma-spazzatura targato Mediaset.
Appunto facendo il confronto con i personaggi che siedono in Parlamento e nei Consigli regionali, verrebbe da turarsi il naso e da mandar giù anche l’arroganza e la supponenza dei professori bocconiani; ma la marcia implacabile dello spread ci mette in guardia che la cura è sbagliata, irrimediabilmente sbagliata, e che, se saremo così stolti da affidarci ancora a simili medici, in capo a qualche mese verremo bellamente spediti all’altro mondo.
E la prima cosa sbagliata sono proprio loro: loro, cioè i tecnici delle banche, quelle stesse banche che hanno scatenato la crisi finanziaria a livello mondiale e che ora, con inaudita improntitudine, non solo vogliono dettare ai popoli e ai governi le regole per uscirne, ma addirittura pretendono di sostituirsi ai governi, di zittire la protesta dei cittadini, di calpestare i diritti dei popoli, giustificando la propria dittatura - perché di questo ormai si tratta e lo vedrebbe anche un cieco - con il ricatto permanente dello spread.
Eco, allora, che, se si è ancora capaci di pensare e di fare due più due, si comincia a capire perché lo spread non scende, perché ogni volta che guardiamo il termometro restiamo mortificati dalla febbre che non vuol saperne di andar via: non scende perché NON DEVE scendere; perché, se scendesse, il paziente guarirebbe e, dopo aver detto grazie al dottore, lo manderebbe a casa e ritornerebbe padrone delle proprie scelte e della propria vita; perché, se scendesse, l’Unione europea, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca centrale europea perderebbero il loro potere di ricatto sulle singole nazioni e le grandi banche statunitensi, dalle quali il virus si è propagato (forse non casualmente), non sarebbero più in grado di finanziare l’altissimo tenore di vita dei cittadini statunitensi con le lacrime e il sangue del resto dell’umanità.
Tuttavia, non c’è solo questo.
Il sistema finanziario globale oggi imperante ha bisogno di vivere sulla tecnica del ricatto permanente: il ricatto dell’insicurezza, dell’ansia, della paura; solo così può giustificare se stesso, solo così si possono chiedere ai cittadini sempre nuovi sacrifici, sempre più rinunce, una erosione sempre maggiore dei margini di libertà, dignità e diritto alla critica.
È la strategia globale inaugurata, sotto l’amministrazione Bush junior, con l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, per giustificare lo svuotamento della democrazia e il ripristino dello Stato di polizia, nelle sue forme peggiori e nei suoi eccessi più inumani (vedi Guantanamo) e, nello stesso tempo, lo stato di guerra permanente a livello internazionale.
Siccome l’economia mondiale si regge sul dogma, indimostrato e indimostrabile, che l’economia americana non può fare bancarotta (anche se gli Stati Uniti hanno un debito pubblico da far paura), per tenere i cittadini statunitensi sotto il ricatto permanente della paura bisognava inventarsi qualcosa di diverso dall’implosione del dollaro; ci voleva un Bin Laden, ci voleva lo spettro di un terrorismo che si annida ovunque ed è pronto a colpire in qualsiasi momento, facendo leva sulle ataviche nevrosi del cittadino medio americano.
Per gli Europei, partner di serie B nel progetto del Nuovo Ordine Mondiale, si usa una strategia diversa: a loro sì che si può far balenare lo spettro del grande fallimento; a loro sì che si può dire: «Badate che finirete come la Grecia!»; a loro, infine, si può chiedere di dimenticarsi il diritto al lavoro, la concertazione, la normale prassi democratica per cui governano degli esecutivi eletti dal popolo e non nominati da qualche Re Giorgio.
Non che gli Europei siano tutti uguali, peraltro: la Germania, senza colpo ferire, si arricchisce ogni giorno con la salita dello spread dei titoli di Stato italiani o spagnoli; perché dovrebbe contribuire a chiudere un così generoso rubinetto? Perché dovrebbe buttar via una situazione così invidiabile: prendere il denaro degli Stati meno ricchi e, contemporaneamente, proporsi come campione di efficienza e rimproverare quegli stessi Stati per il loro disordine finanziario? Una volta c’era la colpa del peccato originale, ora c’è quella del debito pubblico da far pesare sulle coscienze: con la signora Merkel al posto di Domineddio.
Eppure, la soluzione ci sarebbe: ed è già stata mostrata, sia dall’Argentina che dall’Islanda. Rifiutare la logica del ricatto, licenziare gli arroganti e incapaci professori bocconiani e mandare al diavolo il Fondo Monetario Internazionale e le grandi banche. Tutti gli analisti concordano sul fatto che i cosiddetti “fondamentali” dell’economia italiana sono a posto, o, quanto meno, che non sono così mal messi come sembrerebbe indicare l’andamento dello spread o le interessate e menzognere valutazioni delle agenzie di rating, covi della moderna pirateria finanziaria. E allora? Perché l’Italia non potrebbe avere un soprassalto di orgoglio, respingere il ricatto della paura, pretendere che la sua economia, basata ancora sul lavoro, non debba lasciarsi strangolare dalle economie basate sulla finanza speculativa, prima fra tutte quella statunitense?
C’è un grande disegno, un disegno tenebroso, dietro la crisi finanziaria incominciata nel 2008 e che sta falcidiando posti di lavoro, pensioni, servizi sociali, speranze e futuro di centinaia di milioni di persone e, in prospettiva del mondo intero. Non è nata per caso e non per caso sta seguendo le logiche che, proseguendo sui binari attuali, creeranno sempre più debito pubblico, sempre più licenziamenti, sempre più recessione, sempre più angoscia e disperazione. Non ne verremo mai fuori, se ci ostiniamo con questa cura, se saremo così pazzi da affidarci ancora a questi medici.
Dobbiamo rifiutare il ricatto della paura. L’Italia può uscire dall’euro o, quanto meno, può esigere di rinegoziare il proprio debito pubblico; gli interessi esorbitanti che sta pagando su di esso, e che si accumulano inesorabilmente, aumentando in misura esponenziale, finiranno per tagliare le gambe a qualunque possibilità di ripresa, senza contare che servono solo a finanziare sempre più la speculazione. Prima che sia troppo tardi, prima che i “fondamentali” della nostra economia siano veramente intaccati, dobbiamo denunciare che il gioco è truccato ed esigere che si metta sul tavolo un nuovo mazzo di carte.
E, per prima cosa, dobbiamo mandare a casa i “professori”, agenti di quel medesimo sistema bancario che ci ha portati sull’orlo del precipizio…

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