mercoledì 28 marzo 2012

Derivati e Stato: è un magna-magna ?


L’AZZARDO MORALE TRA LO STATO E IL DERIVATO

MASSIMO GIANNINI, REPUBBLICA
Sia lode al professor Alessandro Penati, che domenica scorsa sulle colonne di "Repubblica" ha posto al governo una questione grande non come una casa, ma come un grattacielo. Lo Stato italiano ha dovuto rimborsare 2,6 miliardi di euro alla Morgan Stanley per una perdita su un derivato di cui non si conosceva l’esistenza, finchè l’agenzia americana Bloomberg non ne ha data pubblica notizia.
È giusto che uno Stato investa miliardi e miliardi di denaro pubblico in strumenti finanziari di quel genere? Ed è giusto che i cittadini, ai quali in definitiva quel denaro pubblico appartiene, non sappiano a quanto ammonta l’esposizione del Tesoro in queste forme di investimento, né sappiano se e quanto lo Stato ci guadagna o se e quanto invece lo Stato ci perde? Domande sacrosante, che nessuno finora aveva mai fatto e alle quali nessuno finora si era mai preso la briga di rispondere.
Giovedì scorso, finalmente, il governo ha dato un sia pur flebile segno di vita. Replicando a un’interpellanza presentata alla Camera da Antonio Borghesi dell’Idv, Marco RossiDoria ha reso noto che l’esposizione della Pubblica Amministrazione in titoli derivati ammonta a 160 miliardi di euro. Per carità di patria non commento il «metodo»: che senso ha far rispondere a un quesito così delicato un sottosegretario alla Pubblica Istruzione?. Giudico il «merito» dei 160 miliardi: nulla in valori relativi, se si confrontano con i 1.624 miliardi di titoli di ogni tipo attualmente in circolazione. Molto in valori assoluti, se si considera che ogni italiano (neonati compresi) già sopporta un macigno gigantesco da oltre 32 mila 500 euro di debito pubblico, e che ogni aggravio di costo è un sassolino in più che si aggiunge e che pesa sulle spalle dei «soliti noti». E ha pesato eccome, in questi ultimi anni. Tesoro ed enti locali hanno aumentato a livelli esponenziali il ricorso ai derivati. Ma la scommessa è andata malissimo.
Le perdite su questi titoli hanno fatto lievitare il costo degli interessi sul debito di circa 6 miliardi negli ultimi cinque anni. Più o meno quanto il gettito previsto dalla reintroduzione dell’IciImu sulla casa. Dunque, se si può almeno esprimere un plauso per il primo, modesto passo avanti compiuto dal governo sul terreno della trasparenza, non si può non esprimere anche un sano disappunto per questa forma di «azzardo morale» di cui finiscono per pagare il conto gli italiani. Senza considerare un altro aspetto, tutt’altro che irrilevante: al Tesoro ci sono diversi dirigenti, tra quelli che decidono cosa e quanto comprare, che provengono dalle stesse banche d’affari dalle quali si acquistano quei derivati. A suo modo, un’altra forma di conflitto di interessi. È troppo chiedere al ministro ad interim di occuparsi anche di questi non trascurabili «spread» di etica pubblica?

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