venerdì 17 febbraio 2012

Se il Fondo Monetario fa fallire gli Stati, ma l’Italia non lo sa


La sopravvivenza è la sopravvivenza, e il fatto che molte di queste nazioni sudamericane stanno soffrendo un po’ meno la crisi economica in atto nel mondo perché hanno un rapporto meno dipendente con banche, assicurazioni e agenzie di rating nordamericane ha certamente avuto il suo peso nella decisione di dare vita a questo organismo.

Di Gianni Minà

Il 2 e il 3 dicembre scorso i presidenti e i premier di 33 paesi dell’America Latina e dei Caraibi [praticamente, tutte le nazioni americane tranne Stati Uniti e Canada], si sono riuniti a Caracas per dare compimento alla fondazione della Celac, [Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños] un organismo intergovernativo che si rifà all’idea della Comunità Europea.
L’iniziativa, che ha la sua Germania e la sua Francia nel Brasile, prossima quinta potenza economica del mondo, nell’Argentina di sinistra di Cristina Kirchner e nel ricco Venezuela petrolifero di Hugo Chávez, decreta il tramonto della vecchia Osa, l’Organizzazione degli stati americani che mezzo secolo fa Raul Roa, ministro degli esteri della Rivoluzione cubana, definiva “il ministero delle colonie yanqui” e che oggi Rafaél Correa, giovane presidente dell’Ecuador, economista con un master all’Università cattolica di Lovanio in Belgio, definisce lo “strumento di Washington per perseguitare i governi progressisti del continente a sud del Texas”.
È chiaro che la crisi economica mondiale, causata dagli spregiudicati maneggi finanziari dell’economia neoliberale, ha spaventato e sollecitato un continente oggi in crescita dopo decenni di sofferenze e vessazioni di istituti come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Questi organismi hanno sempre lavorato per soddisfare solo le mire dei paesi più ricchi e potenti, tesi ad accaparrarsi le ricchezze di nazioni piene di risorse naturali ma condannate all’indigenza e alla repressione dalle logiche di prestiti “inumani e impagabili”, come li definì papa Giovanni Paolo II.
Per questo è sintomatico il fatto che alla Celac abbiano aderito anche i rappresentanti di governi conservatori e fino a ieri proni solo agli interessi degli Stati Uniti, come Juan Manuel Santos, neo presidente della Colombia, uno stato che “ospita” ben sette basi militari nordamericane, Felipe Calderón, presidente del Messico che a breve dovrà addirittura accettare che la lotta ai cartelli dei narcos venga diretta nel suo paese dai Seals, le teste di cuoio della Marina americana, che recentemente hanno fatto fuori in modo spiccio Osama bin Laden, e il cileno Sebastian Piñera, ultraliberista, eletto addirittura  presidente del nuovo organismo.
La sopravvivenza è la sopravvivenza, e il fatto che molte di queste nazioni sudamericane stanno soffrendo un po’ meno la crisi economica in atto nel mondo perché hanno un rapporto meno dipendente con banche, assicurazioni e agenzie di rating nordamericane ha certamente avuto il suo peso nella decisione di dare vita a questo organismo. Tanto per capirci, infatti, a questo summit c’era anche Raúl Castro, presidente di Cuba, il paese ancora sottoposto a embargo e provocazioni varie da parte degli Stati Uniti per avere scelto, cinquant’anni fa, di governarsi con una sorta di socialismo caraibico e di essere quindi un cattivo esempio per tutte quelle nazioni nel continente sfruttate e depauperate per decenni dalle multinazionali del nord e che, ancora recentemente, sono state obbedienti nell’accettare il famoso Alca, trattato di libero commercio con gli Usa, che le fa ancora penare per restituire i debiti e recuperare uno straccio di  sofferta autonomia.
Forse è per questa realtà, che smentisce molte delle certezze del mondo capitalista, del mercato, che la quasi totalità degli organi di informazione italiani hanno nascosto o addirittura ignorato, la notizia della nascita della Celac.
Come avrebbero potuto spiegare, infatti, dopo aver cantato senza ritegno le lodi dell’economia globalizzata e la favola del mercato che si autoregola, che queste realtà nascondono una cinica fregatura?
I nostri media sono arrivati al punto di sottolineare come notizia rassicurante quella che il Fondo monetario avrebbe intenzione di “aiutare” con un prestito la sofferente Italia di Monti. Dimenticano, però, che questo organismo, nato come la Banca mondiale a Bretton Woods [New Hampshire] nel 1944 per sovrintendere alla bilancia dei pagamenti fra stati dopo il fallimento del cosiddetto “Gold standard” [la convertibilità in oro di tutte le banconote circolanti, complice di un sistema che precipitò l’economia planetaria in due guerre mondiali] ha guadagnato una fama nefasta. La fama di aver annientato, a causa di debiti impagabili, tutte le nazioni dove, chissà perché, era stato richiesto il suo intervento.
Un primato rotto recentemente soltanto da nazioni latinoamericane come il Brasile di Lula o l’Argentina dei Kirchner, che hanno semplicemente detto, a un cero momento, “Adesso pagheremo quando potremo farlo” e, in pochi anni l’hanno fatto, avvisando poi i funzionari dell’Fmi, ancora impegnati, come Totò quando cercava di vendere la Fontana di Trevi, a proporre a queste nazioni presunti affari e - soprattutto - altri prestiti: “Con voi il discorso è chiuso, non vogliamo più vedervi da queste parti”.
La realtà poi è ancora più grottesca se si considera che, per esempio, come esperto di geopolitica latinoamericana, giornali progressisti come La Repubblica e l’Espresso, o come lo stesso El País in Spagna, scelgono l’ex direttore esecutivo della Banca mondiale, Moisés Naím, l’economista venezuelano che quando era ministro dell’industria e del commercio dell’imbarazzante governo di Carlos Andres Perez fu tra i responsabili, nel 1989, del caracazo, protesta di piazza contro le privatizzazioni selvagge repressa nel sangue con più di 500 morti. I suoi articoli, sempre avversi ai protagonisti del rinascimento dell’attuale America latina progressista, sono capaci di sostenere che non bisogna plaudire Lula, che ha portato il Brasile a essere quello di oggi, ma semmai gli incredibili successi del povero presidente messicano Felipe Calderón, creatura politica degli Stati Uniti, che nei suoi quasi sei anni di governo e di presunta guerra ai cartelli della droga, ha già messo in fila 50mila morti [quanto il conflitto in Iraq] e l’assassinio di una trentina di giornalisti.
Credo che in questo atteggiamento sia palese un grande equivoco: quello sulla capacità del modello politico neoliberale di salvare il mondo, o anche soltanto di tirarlo fuori dall’attuale corsa verso il nulla. Anche se pervicacemente perfino l’informazione che fu progressista cerca pateticamente di dimostrare che il mercato metterà tutto a posto.
Nel 1989 è imploso, per i suoi fallimenti, il comunismo. Adesso sta vivendo lo stesso destino il capitalismo. Solo che non si ha il coraggio di dirlo o non si permette di sottolinearlo, di farlo sapere e di porre riparo a questa deriva, perché sennò si perdono copie o punti di rating.
Tutto questo è pericoloso e triste, perché con questo andazzo, che si è limitato a proteggere banche, banchieri e nazioni potenti, non si va da nessuna parte se non verso pericolose stagioni di scontro e di ribellione. Guardate l’Italia: lo stesso Monti, condizionato della vecchia politica e sicuro solo dei consunti metodi del neoliberismo, non ha saputo far pagare i guasti economici a chi li aveva causati o, con i suoi modi di essere [evasione fiscale, corruzione eccetera], ne era responsabile. Perché dovremmo credere che adesso possa cambiare qualcosa, non avendo avuto il coraggio di girare pagina e di battere nuove vie, più eque e più sociali, per assicurare a tutti, ma proprio tutti gli esseri umani, il diritto di vivere?

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