venerdì 17 febbraio 2012

Il futuro globale della crisi europea


È chiaro che la crisi dell’Eurozona si protrarrà anche nel 2012, nonostante la ripresa dei mercati azionari registrata all’inizio di febbraio.
Le negoziazioni tra la Grecia e le banche sul debito sovrano potrebbero essersi concluse, ma resta alquanto incerto che le banche partecipino all’accordo in modo sufficientemente massiccio. Nel frattempo, il Fondo monetario internazionale ha sollevato la questione sulla riduzione del debito pubblico, possibilmente da parte della Banca centrale europea, inviando il messaggio che un haircut per gli investitori privati non sarà sufficiente a riportare la Grecia alla sostenibilità finanziaria.

I timori del Fmi sono fondati, ma l’idea non viene accolta con favore per i timori di contagio politico: altri Paesi dell’Eurozona in difficoltà debitoria potrebbero fare pressioni per ottenere pari trattamento. Inoltre, l’incremento delle risorse promesso dal Fmi, che consentirebbe di costruire un firewall più forte contro il contagio finanziario, non è ancora arrivato. E tutti i cambiamenti concordati per i fondi salva-Stati European Stabilization Fund (Esf) e European Stability Mechanism (Esm) devono ancora essere implementati. 

Certo, alcuni passi sono stati fatti. La generosa iniezione di liquidità della Bce alle banche europee ad un tasso dell’1% per tre anni ha evitato che la crisi bancaria si aggiungesse alla crisi del debito sovrano. Ma questa iniziativa non è bastata a riportare i costi di indebitamento a lungo termine dei Paesi in difficoltà a livelli compatibili con i rispettivi tassi di crescita: c’è troppa incertezza nel lungo periodo e le prospettive di crescita sono assolutamente poco incoraggianti. A metà gennaio, infatti, Standard & Poor’s ha annunciato il downgrade di Francia e Austria (che hanno perso la tripla A), dopo aver già declassato altri sette Paesi dell’Eurozona – Slovenia, Slovacchia, Spagna, Malta, Italia, Cipro e Portogallo.

Ora appare evidente come l’importante sfida a carico dell’Eurozona sia riconducibile al fatto che l’unione monetaria non si accompagni a un’unione economica – un fenomeno senza equivalenti nel mondo. Di conseguenza, le divergenze riscontrate in questo periodo in termini di costi di produzione non possono essere compensate dagli aggiustamenti sul tasso di cambio.

In assenza di un’elevata inflazione nei Paesi in surplus (almeno al 4% l’anno), l’aggiustamento fa sì che la deflazione nei Paesi in difficoltà produca un calo notevole dei costi di produzione. In pratica, tale deflazione può essere raggiunta solo a fronte di un elevato tasso di disoccupazione e di malcontento sociale. Non è quindi chiaro se l’attuale strategia di austerity e deflazione sia politicamente fattibile, e questo spiega l’enorme  incertezza che incombe su tutta Eurolandia.

Un’inflazione più alta nei Paesi in surplus e maggiori trasferimenti transfrontalieri di risorse darebbero ai Paesi in deficit più tempo, consentendo alle riforme strutturali di produrre risultati e riducendo la necessità di deflazione. Ma i Paesi in surplus del Nord Europa rifiutano questo approccio, temendo che tale azione rallenti la pressione sui Paesi debitori del Sud Europa ad intraprendere innanzitutto le riforme strutturali.

Oltre agli specifici problemi legati all’unione monetaria, esiste altresì una dimensione globale connessa alle sfide che dovrà affrontare l’Europa: la tensione, enfatizzata da autori come Dani Rodrik, Jean Michel Severino e Olivier Ray, tra la politica democratica nazionale e la globalizzazione. Il commercio, la comunicazione e i collegamenti finanziari hanno creato un grado di interdipendenza tra le economie nazionali, che insieme all’enorme vulnerabilità alle oscillazioni dei mercati finanziari, ha limitato la libertà d’azione dei policy maker nazionali di tutto il mondo.

Forse il segnale più drammatico di questa tensione è giunto quando l’allora primo ministro greco, George Papandreou, annunciò un referendum sul pacchetto politico proposto per consentire alla Grecia di restare nell’Eurozona. Pur non obiettando i meriti dei referendum nel processo decisionale, il vero problema è stato quello di intavolare un dibattito politico per diverse settimane, quando i mercati si muovono in ore o minuti. Sono bastate meno di 24 ore perché la proposta di Papandreou collassasse sotto la pressione dei mercati finanziari (e dei timori che i leader europei hanno nei confronti dei mercati).

In tutto il mondo, lo stock di asset finanziari è diventato così consistente, rispetto ai flussi di reddito nazionale, da consentire ai movimenti dei mercati finanziari di travolgere numerosi Paesi. Anche le economie più grandi sono vulnerabili, soprattutto se dipendono fortemente dai finanziamenti concessi con l’emissione di debiti. Se, per qualche ragione, i mercati finanziari e/o la banca centrale cinese dovessero improvvisamente rifiutare i buoni del Tesoro americani, i tassi di interesse schizzerebbero alle stelle, gettando l’economia americana in recessione. 

Essere creditori non esime però da eventuali problemi. Se la sete americana di esportazioni cinesi collassasse all’improvviso a causa di un panico finanziario negli Stati Uniti, la Cina stessa si ritroverebbe in seri guai economici.

Queste minacce interconnesse sono reali e richiedono una cooperazione globale più forte in termini di politica economica. I cittadini, tuttavia, desiderano capire cosa succede, discutere delle diverse linee politiche e dare il proprio consenso alle varie modalità di cooperazione proposte. Serve quindi una forma di politica che sia maggiormente sovranazionale, per includere nuovamente i mercati nei processi democratici, come è accaduto durante il corso del ventesimo secolo con la politica nazionale e i mercati nazionali.

La portata di questa sfida diventa evidente se si osserva quanto sia difficile coordinare le politiche economiche anche nell’Unione europea, che si è mossa più rapidamente di qualsiasi altro gruppo di Paesi verso una cooperazione sovranazionale. Ciò nonostante, a meno che non si verifichi un rallentamento o una parziale inversione di tendenza della globalizzazione – 
fatto alquanto improbabile e indesiderato nel lungo periodo – il tipo di politica oltre i confini cui ambisce l’Europa diverrà una necessità globale.

Forse la crisi europea sta solo dando un assaggio di quello che sarà il dibattito politico centrale della prima metà del ventunesimo secolo: risolvere la tensione tra mercati globali e politica nazionale.

Kemal Derviþ

Kemal Derviþ è stato ministro dell’economia in Turchia, capo del programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) e vice presidente della Banca mondiale. Attualmente riveste la carica di vice presidente e direttore di Global Economy and Development Program presso il Brookings Institution.

Copyright: Project Syndicate, 2012. www.project-syndicate.org 
Traduzione di Simona Polverino

Fonte:  Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/12qEpq

Nessun commento:

Posta un commento